Fra beffe e cazzottate, muore il Carnevale e trionfa la Quaresima

Dategliele secche, gente, perché, fra poco, è finita la pacchia. Da mezzanotte di martedì potete prenotare al CUP le analisi di trigliceridi, colesteroli e quant’altro per farvi dire quel che già sapete, ovvero che, con quanto avete mangiato e bevuto, dovete spurgare più delle lumache prima di farci il sugo: da mercoledì (delle Sante Ceneri) comincia la Quaresima e si smette di bagordare.

Quel giorno, ve lo ricordate, vero? è di digiuno e astinenza. Cioè non si mangia carne, ma non basta: astinenza vuol dire che ci si astiene (appunto) da tutti i piaceri della carne, che è anche la carne vostra, non solo la ciccia che vi scodellate nel piatto. E allora, non solo si mangia di magro, ma non si beve vino, non si mangiano dolci e manco si tromba, cari miei. E’ finito il Carnevale, mettetevelo nel capo.


Del resto, Carnevale prende il nome proprio da “carnem levare” o da “carnem lasciare”, e il concetto è, in entrambi i casi, molto chiaro: da mercoledì iniziano i 40 (rieccolo il 40!) giorni di penitenza che devono riconciliare gli uomini con Dio, prima del coronamento della presenza del Cristo sulla terra nel giorno della sua Resurrezione.
La Quaresima ha gli aspetti che noi conosciamo dal V secolo (fino ad allora era una sola settimana prima della Settimana Santa, poi alla Chiesa evidentemente le sembrò un po’ troppo comodo, e allora giù con la quarantina), ma il Carnevale è più vecchio, perché è antichissimo il rito dell’inversione temporanea dell’ordine e della creazione del disordine che precede la rinascita. Vale la pena ricordare che nell’antica Roma, il 14 marzo si celebrava la festa di Mamurio Veturio, durante la quale un uomo vestito con pelli di capra e raffigurante, di fatto, l’inverno e il vecchio anno che finivano, veniva sbeffeggiato e colpito con bacchette per farlo fuggire e lasciare il posto alla primavera che stava iniziando.
Il Carnevale è dunque la festa del rinnovo della stagione e, come tutti i tempi “sacri”, apre le porte al mondo degli inferi, dove risiedono gli spiriti dei morti (e dei demoni: Arlecchino in origine è il demone Hellequin, o, se preferite, il dantesco Alichino) i quali devono garantire che dalla terra nasca il nuovo raccolto. Dal mondo ctonio, essi ritornano, così, nel mondo dei vivi con corpi “provvisori” simboleggiati dalle maschere.
Nel rituale burlesco che sottolinea la fine del tempo vecchio in preparazione del tempo nuovo, Carnevale-inverno viene sottoposto ad un vero e proprio processo, al quale seguono la sentenza, la redazione del testamento del condannato, l’esecuzione, il funerale e, infine, il rogo del “cadavere”.

Ovunque, e più o meno da sempre, il periodo folklorico carnevalesco presenta le stesse caratteristiche: giocosità, eccesso alimentare, trasgressione, inversione dei canoni. Nell’antico Delfinato, in Francia, in questi giorni la gioventù maschile dava vita a giochi che mimavano la guerra e altrettanto accadeva in altre parti della Cristianità: se già a Roma, nel IX secolo, il Carnevale era sottolineato dal cacce ai tori e da grandi mangiate, a Viterbo, alla fine del XII secolo, ci si vedeva costretti a vietare giochi troppo ruvidi.
Non parliamo di quel che succedeva nella nostra città. A Siena, dove si stravedeva per le pugna (quelle megacazzottate fra due schiere, una composta dal terzo di Città e l’altra dai due terzi uniti di Camollia e San Martino), il Carnevale era l’occasione d’oro per mettere in scena, sul Campo, lo spettacolo più amato dai Senesi. Nel 1319, per il Giovedì Grasso, il gioco trascese al punto che, dopo i pugni, si passò ai sassi. Il podestà cercò di mettere fine a quella che era ormai diventata una vera e propria battaglia, ma quando alla fine si riuscì a separare le due schiere, si contarono dieci morti e qualche centinaio di feriti. Sotto le finestre del Palazzo Comunale, scrive sbigottito il cronista Agnolo di Tura del Grasso, si era accumulata una tale quantità di pietre che sarebbero state sufficienti a costruirci una casa, tanto che il Comune dovette spendere un sacco di soldi per pagare chi le rimuovesse.
E non basta: qualche anno dopo, nel Carnevale del 1325, ci fu la riavuta. Con lo stesso esito: dai pugni ai sassi, poi ai bastoni, alle spade, alle mannaie, alle balestre. Uscì la guardia del Podestà e fece anche alla svelta a ringuattarsi , perché sennò ce n’erano anche per i soldati. Alla fine, il tumulto si spostò e si presero d’assalto botteghe e case di magnati (non era più una battagliola: all’indomani si scoprirà che le pugna erano state il pretesto per un tentativo di colpo di Stato) e per placare gli animi fu necessario che il vescovo con la croce in mano seguito da tutto il clero capitolare si mettesse in mezzo ai combattenti.
Da noi, le cazzottate carnevalesche, peraltro, non persero mai di favore: nel 1613, la Balìa, stanca delle scaramucce fra gli studenti (in gran parte “fuorisede” si direbbe oggi) della Sapienza e i giovani delle conce e dei tiratoi della lana di Fontebranda (Sudicioni! Grezzi! sbeffeggiavano i primi. Bighelloni! Parassiti! replicavano gli altri) decise che, per farla finita, si affrontassero in una battagliola di pugna per Carnevale e smettessero di rompere l’anima alla gente. Meno male che poi i costumi si addolcirono e, per Carnevale, a Siena ci si limitò a feste e a giganteschi e scenografici cortei, soprattutto organizzati dalle accademie cittadine. Come quello fatto dall’Accademia dei Rozzi per il Carnevale del 1703, che ebbe come tema lo “Scoprimento de l’Indie fatto dall’ammiraglio don Cristoforo Colombo”. In quest’occasione, una schiera di figuranti vestiti da Indiani, al seguito di un esotico re, fece ingresso dal Chiasso Largo per incontrare i figuranti vestiti da Spagnoli che entravano in Piazza dal Casato dietro una caravella. Almeno, questa volta non ci furono battaglie o pugna. A fare quelle vere ci avevano pensato, più o meno due secoli prima, gli Spagnoli veri, nelle “Indie” vere, a spese degli “Indiani” veri.
Le battaglie di Carnevale, beninteso, non erano una prerogativa dei soli maneschi Senesi: giochi di affrontamento si svolgevano, in quest’occasione, in Umbria, in Piemonte, in Emilia, in Lombardia. A Bologna, nel 1506, va in scena un torneo fra Carnevale e Quaresima (forma “attiva” del certame poetico tradizionale che contrappone, tradizionalmente, le due figure folkloriche) e battagliole a base di arance e gavettoni si ritrovano attestate a Valencia nel 1517 e a Montpellier nel 1553. Nel 1580 a Romans, nel Delfinato, in Francia, altro che pugna senesi! Qui il Carnevale si trasforma in una sanguinosa rivolta degli artigiani contro i notabili e ne va di mezzo la stabilità delle istituzioni cittadine e l’ordinamento sociale.


La beffa e la “follia” sono ovunque la cifra carnevalesca: in Francia o in Germania è il momento dell’anno in cui si tengono le “feste dei folli” che costruiscono un mondo alla rovescia dove ogni regola è sovvertita e dove la rinascita della stagione primaverile è sottolineata da riferimenti sessuali anche pesanti. Se i “Lupercalia” romani di fine inverno (ne abbiamo parlato per San Valentino, ricordate?) prevedevano che i giovani nudi percuotessero allusivamente le donne con strisce di pelle, nell’età moderna le allusioni non sono così velate: a Napoli, per il Carnevale del 1664, viene portato in processione un enorme membro maschile di legno, intorno al quale imperversa una vera e propria fiera delle scurrilità.
Non sorprende che la Chiesa abbia il Carnevale come il fumo negli occhi. Savonarola, nel 1495, lo bandisce da Firenze e lo sostituisce con poco appetibili processioni e lagnose, lugubri sacre rappresentazioni, ma anche dove non si arriva a questi eccessi, il clero cerca di annacquare e depotenziare per quanto può (e può poco) questa festa che gode del favore di tutti i ceti sociali. E non sono solo i cattolici a non amare il Carnevale: la Chiesa ortodossa lo condanna nel cosiddetto “Concilio dei cento capitoli” del 1551, ed Erasmo da Rotterdam, per parte sua, scuote la testa disgustato davanti a questo spettacolo scomposto e indecoroso.
E le maschere? Una legittimazione della loro presenza folklorica si potrebbe ritrovare nel già ricordato corpo fittizio dei defunti e dei demoni, ma in realtà, prima dell’età moderna, abbinare le maschere al Carnevale è improprio: nel Medioevo, per dire, le maschere vengono usate, certo, ma non in occasioni carnascialesche, come per il Calendimaggio a Firenze, ad esempio, o a Roma, nel tardo Trecento, per la festa di Testaccio, oppure in occasione di feste agrarie legate al ciclo dei campi (i mamutones sardi, per Sant’Antonio abate). Le maschere carnevalesche vere e proprie, infatti, entrano in uso non prima del XV secolo, mentre, per Carnevale, magari, ci si traveste, questo sì. A fine ‘200, a Reggio Emilia – ci racconta scandalizzato frate Salimbene de Adam – alcuni mugnai si camuffano da francescani e fanno un casino boia; il Podestà li prende per frati veri e condanna gli incolpevoli religiosi del pio convento. Evvabbeh: a Carnevale ogni scherzo vale, no? Questo fu pesantuccio, ma indubbiamente ganzo a bestia.

Duccio Balestracci