Fo racconta Fo, il latinista Alessandro e lo zio Dario

Alessandro Fo, latinista all’Università di Siena, racconta affettuosamente lo zio attore e premio Nobel.

1992

Il 13 ottobre scorso è morto Dario Fo, premio Nobel per la Letteratura. Più che uomo di penna e calamaio è stato un grande istrione sopra i legni del palco dei teatri. A Siena molte volte ha messo in scena i suoi spettacoli, spesso permeati da un certo spirito di denuncia dello status quo. Nella nostra città poi insegna il nipote di Dario, Alessandro Fo, latinista all’Università degli Studi di Siena. Con lui abbiamo esplorato i ricordi di un personaggio unico.

Dario Fo secondo Alessandro Fo. Ritratto emotivo di un uomo rivoluzionario…
“Non so se dipenda dal particolare momento, o da una storia più lunga e personale, però non riesco a delineare un ritratto ‘nuovo’ di Dario. Mi trovo paradossalmente molto in difficoltà a ‘incrociare i dati’ del personaggio pubblico con quelli del parente, e a ricostruirne un profilo che vada molto al di là di quanto potrebbe scrivere anche un semplice osservatore esterno. La gente di teatro è ontologicamente, per definizione, «sempre via» – un po’ come l’Enea di Virgilio è, secondo Iosif Brodskij, «sempre in partenza». Questo fa sì che anche il teatrante di famiglia finisca per assumere connotati piuttosto sfuggenti. Mio padre stesso, il fratello di Dario, era un uomo di teatro (non nel settore ‘artistico’, ma in quello organizzativo e dirigenziale); e perfino di lui penso di poter dire – senza acrimonia o risentimento, ma come dato oggettivo – che la vita familiare è sempre rimasta come ‘filtrata’ dalla vita di palcoscenico. Alla fine, ho conosciuto forse di più e meglio Dario e Franca dal loro profilo pubblico, dalla loro militanza, che non dalle relativamente poche occasioni di incontri familiari”.

Che zio è stato?
“Stranamente, il periodo in cui ho avuto maggiori occasioni di frequentare ‘da familiare’ Dario e Franca è stato quello dell’infanzia e adolescenza. All’epoca vivevo a Torino, dove mio padre lavorava al Teatro Stabile. Ogni anno Dario scriveva una nuova commedia, poi la sua compagnia la metteva in scena e partiva per una regolare tournée. C’era sempre un passaggio torinese, ed erano giorni in cui vivevo praticamente dietro le quinte, oppure in sala durante le rappresentazioni. Di ogni nuovo spettacolo, le prove di prima impostazione si svolgevano a Milano, e così mi è capitato spesso di seguirle, da ragazzino affascinato da quel particolare universo. Poi venne la svolta (mi spiace di ripetermi, essendomi già capitato di parlarne un poco, in qualche testimonianza che mi è stata chiesta in questi giorni, su «L’Avvenire» e sull’«Unità»). È un ricordo appannato, perché ormai è molto lontano nel tempo; da elementi ‘esterni’ penso che vada collocato nel ’67, e avevo appena dodici anni. Siamo in un bar, credo a Milano. Ci siamo anche noi ragazzi, di certo mia sorella Laura ed io, forse anche Jacopo. Davanti a un gelato, i grandi conversano, animatamente. Il tema è importante: Dario e Franca sono all’apice di un successo teatrale travolgente: ma ormai è deciso, «rivoluzioneranno tutto», per rifarmi all’espressione della sua prima domanda. Parlano di abbandono dei teatri ‘regolari’, chiamano in causa tendoni, fabbriche, operai. Intendono mettere la loro arte al servizio di chi non ha mai avuto accesso alla cultura, di chi non ha ribalte o espressioni artistiche che diano voce alle loro istanze. Noi restiamo stupiti, perplessi, ci sembra un salto nel buio… Loro però sono pienamente convinti, e con coraggio e determinazione andranno avanti, come si sa, per questa nuova strada. Immagino che i miei avessero già avuto qualche preavviso di questa decisione; ma se ne sta discutendo in diretta, e la cosa mi sembra così enorme e sconvolgente che non a caso resta uno dei momenti che più mi sono rimasti impressi del nostro incrocio di vite”.

Alessandro, professore di latino e il grammelot. Cosa ne pensa?
“L’arte di usare il grammelot rientra pienamente nel personaggio. Da Dario non ci si poteva attendere alcuna forma di precisione filologica o scientifica. Per lui sono sempre stati preminenti l’estro, la trovata, l’effetto. Intendiamoci, da un lato sentiva il fascino di una cultura ‘strutturata’; ma altre urgenze non consentivano di investirci troppo tempo o troppe energie. Negli ultimi anni, ogni tanto mi telefonava per avere un parere da un addetto ai lavori (abbiamo abbastanza lottato, per esempio, sul suo testo riguardante Sant’Ambrogio). Ma poi restavano prioritarie altre ragioni – modalità di una sua libertà di reinterpretare i dati, anche forzando, se lo richiedeva lo spettacolo.

Fuori dunque da ogni filologia o recupero dotto, lo strumento del grammelot era quanto di più adatto a valorizzare le sue grandi qualità di inventore di sorprese teatrali. Indipendentemente dall’inquadramento storico-ideologico che Dario credeva di potergli dare – l’ideologia, intendo, del giullare-dissacratore –, il grammelot è stato essenzialmente uno dei canali più efficaci attraverso cui ha saputo esprimere la sua grande versatilità di attore e anzi direi di genio creativo della scena”.

Ha avuto occasione di assistere a qualche suo spettacolo qui a Siena?                                                                                                                                                                                                                “Naturalmente in passato Dario è venuto a recitare anche a Siena, ma ora non saprei recuperare informazioni più precise. Da che ci abito anch’io, ho avuto occasione di vederlo recitare solo una sera di alcune estati fa, a Monteriggioni; sotto le stelle, in quello scenario molto suggestivo metteva in scena il suo San Francesco”.

Qual è il ricordo piú bello che la lega allo zio?
“Più che isolare un momento che svetti sugli altri, posso forse tracciare una minima parabola di ‘momenti’ particolari. Innanzitutto quelle settimane teatrali in cui il ragazzino di famiglia diveniva una mascotte e insieme ‘uno dei nostri’ in quella vita tutta particolare che conduce una compagnia nel momento in cui un nuovo spettacolo viene faticosamente a condensarsi, fra vuoti di memoria, emergenze, ritocchi, sfuriate e cene ‘di famiglia allargata’. Poi un gesto di generosità molto mirata: quando la mia fidanzata si trovò a svolgere l’anno di prova come professore di ruolo al Liceo «Montale» di Roma, invitato da lei a tenere una lezione-spettacolo ai suoi allievi, Dario non oppose la pur comprensibile resistenza, ma venne apposta da Milano, tenne un suo seminario-spettacolo sul Ruzante, e se ne ripartì in aereo, solo soletto, così per puro affetto di famiglia.

E poi c’è l’ultimo paragrafo del nostro ‘carsico’ incontro, sotto il Natale del 2015, quando mi chiese che gli inviassi uno scritto con un racconto delle mie personali ‘avventure’ nei territori della spiritualità. Sì, naturalmente aveva bisogno di affettuose consultazioni in vista del libro cui stava ponendo mano con Giuseppina Manin, Dario e Dio. Ma nel frattempo se n’era andata Franca (dove? a lui sembrava di avvertirne la presenza); e anche l’età stessa lo esponeva ormai ‘alla chiamata’. Dietro quella richiesta – in apparenza un variante dei pareri su S. Ambrogio o altri personaggi del passato da mettere in scena –, si affacciava, velata, teneramente timida, un’istanza diversa e più profonda: cercare nelle esperienze delle persone care un dialogo che lo aiutasse nella sintonia con una dimensione imprevedibile, per cercare di giungere all’appuntamento senza ignorare del tutto come regolarsi una volta alle prese con la nuova parte”.

Martina Sgubin