Aspettando Natale: luci e campanine di Santa Lucia

Santa Lucia. Verso il Natale, fra luci e campanine. Ecco la seconda parte della storia della martire Lucia. Con questi racconti il professor Duccio Balestracci ci accompagna verso le Festività

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Ci stiamo finalmente avvicinando all’incontro fra la festa di Santa Lucia e quelle del santorale decembrino. E per farlo prendiamo i considerazione i due elementi identificativi che abbiamo già visto: la lampada e gli occhi. Entrambi rinviano ad un concetto unico: la luce. Ora, a collegare Lucia con quest’ultimo elemento interviene anche un ulteriore fatto, assolutamente estraneo alla storia della santità, ma indissolubilmente legato alla storia del sacro (che è cosa diversa da quella precedente: se capita, ne riparliamo) e dell’antropologico. Lucia vive a Siracusa; anzi, di Siracusa diventa la patrona. Ma il nucleo più antico di Siracusa è costituito dall’isola di Ortigia dove sorgeva, in origine, un tempio di Artemide. Che c’entra? vi state domandando. C’entra perché Artemide , simboleggiata dalla Luna, è la dea della LUCE. E la dea antica è come se avesse trasportato la santa nell’apparato delle sue attribuzioni sacrali, associandola al culto proprio della luce.

Ed ecco il punto che ci interessa: il giorno di Santa Lucia è quello del solstizio d’inverno. Sbagliato, state pensando: il solstizio è più avanti. Vero, ma solo dal 1582, quando Gregorio XIII decise di riallineare il calendario con il moto degli astri e di correggere quegli errori di calcolo che, nei secoli, si erano accumulati facendo sballare equinozi e solstizi ormai decontestualizzati dal percorso reale del Sole. Il calendario cristiano era infatti basato su quello romano (giuliano, come ci chiama dal fatto che fu promulgato nel 46 a.C. da Giulio Cesare: non l’aveva elaborato lui, sia ben chiaro, era opera dell’astronomo greco Sosigene di Alessandria) che calcolava la durata dell’anno in 365 giorni e 6 ore. Troppo: ci sono 11 minuti e 13 secondi in più rispetto alla durata reale. All’epoca, non esistevano gli strumenti per fare un calcolo così raffinato, ma l’errore, ogni 128 anni, regalava, di fatto, all’anno un giorno in più e, di conseguenza, faceva progressivamente slittare all’indietro equinozi e solstizi. Nella prima metà del Trecento, pertanto, il solstizio d’inverno era ormai retrocesso proprio al 13 dicembre. Il giorno di Santa Lucia.

Il papa, dunque, stabilì (beh: non lui; lui si fece carico di rimediare all’anomalia, tanto da farne l’oggetto di una bolla “Inter gravissimas”, ma i calcoli li aveva fatti l’astronomo e matematico calabrese Luigi Lilio il quale non aveva nemmeno potuto vederli applicati perché era morto nel 1574); i papa, si diceva, stabilì che, per procedere a far di nuovo coincidere il calendario con il movimento reale degli astri, si doveva amputare quel che, nei secoli, si era indebitamente accumulato: un pacchetto di dieci giorni “abusivi”. Così, per decreto pontificio, il giorno dopo il giovedì 4 ottobre di quell’anno il mondo si svegliò la mattina di venerdì 15 ottobre (attenzione: questo vale per il mondo occidentale cattolico, non per quello orientale greco-ortodosso, il quale, non riconoscendo nessuna autorità al pontefice di Roma, mantenne il calendario giuliano. Ecco perché le date dei paesi di cultura bizantina non coincidono con le nostre, tanto che, per dire, nel 1917, in Russia, la Rivoluzione d’Ottobre scoppiò all’inizio del nostro novembre).

La riforma di Gregorio XIII ricollocò, dunque, il solstizio fra il 21 e il 22 dicembre, ma fino a quel momento, per secoli, si era creduto che il giorno più corto dell’anno fosse proprio il 13 dicembre e la mentalità popolare (capace di inossidabili conservatorismi) continuò in quella convinzione, tanto che anche oggi, per quanto si sappia che è falso, si continua a recitare che Santa Lucia è il giorno più corto. E’ una corbelleria, ma una corbelleria che rende omaggio a secoli di astronomico errore e di folklorico significato.

Il giorno in cui il Sole comincia a “rinascere” è, nella cultura agraria primordiale, una sorta di “capodanno” e segna una frattura fra i momenti di “morte” e “resurrezione” dell’astro. Logico che, anche in questo caso, il giorno fosse solennizzato con elementi che rinviassero alla simbolica della luce. E Santa Lucia (già il nome, del resto, dice tutto) era lì, con la sua lampada, con i suoi occhi (elemento anch’esso strettamente correlato con la luce) e con tutto il bagaglio sacrale ereditato da antiche culture, a farsi celebrare come metafora della luce che rinasce e della stagione che si indirizza verso nuova vita.

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E anche Santa Lucia, dunque, porta doni, perché ogni capodanno folklorico impone lo scambio del dono, dal momento che donare propizia il ricevere (in questo caso, appunto, la luce, il calore, il raccolto). Così, soprattutto nelle culture settentrionali (in Austria, ad esempio, o nelle regioni boeme;  l’uso in Finlandia, Danimarca e Svezia è assolutamente moderno e non anteriore al primo trentennio del ‘900), è Santa Lucia a distribuire i doni, come, in altre regioni, sempre del Nord, abbiamo visto fare a San Nicola. Ed è curioso, ma forse ha un significato non banale, che proprio a Siena, nel ‘200, una compagnia laicale porti entrambi i nomi, associati, di San Nicola e Santa Lucia.

In questa funzione di distributrice di doni, la santa è aiutata da un “castaldo”, perché anche la cultura folklorica ha bisogno di elementi di razionalità, e non si può pensare che Lucia possa fare tutto da sola. E’ la stessa impostazione mentale che fa affiancare a San Nicola un aiutante che, nella tradizione anglosassone, è un nero (Pietro il Nero), frutto di una distorsione razzista di una leggenda che lega Nicola all’Africa, messa in teatro da Jean Bodel fra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo. La sensibilità antirazzista ha poi fatto diventare nero il colore del servo Pietro, non per origini etniche, bensì per lo sporco della fuliggine accumulatosi su di lui a forza di andare su e giù per i camini delle case a lasciar regali.

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Ma il ritorno del Sole, frutto della concezione ciclica del tempo, deve essere aiutato. Come in quasi tutte le culture del mondo, il passaggio “catastrofico” della stagione deve essere sottolineato dal caos perché è dalla scomposizione e negazione dell’ordine che ritorna l’ordine nuovo. E allora anche  il “capodanno” Santa Lucia necessita di rumore e di caos: è un retaggio sciamanico che assume aspetti talvolta bizzarri. Nei Paesi Bassi, ad esempio, una variante di San Nicola cui è legato l’altro, già ricordato, capodanno folklorico da leggere in parallelo con quello di Santa Lucia, è la figura di Zio Klaas che si aggira abbigliato in costumi stravaganti e fa un casino pazzesco. Analogamente, in Spagna, il 13 dicembre, anticamente, al calar del sole frotte di ragazzini correvano per le strade facendo un gran chiasso con oggetti di metallo; a Verona (ma anche altrove) si usavano, per questa bisogna, le piccole campanelle: in quella città, anzi, la notte “più lunga” era detta la notte dei campanellini.

Anche a Siena. Gli scavi della fornace cinquecentesca nei Pispini hanno restituito campanine di ceramica usate in quell’epoca, evidentemente, anche per questa circostanza, esattamente come, ancora oggi, la colonna sonora della fiera di Santa Lucia è rappresenta dal tintinnio delle campanine di ceramica. La sola differenza è che le nostre hanno i colori delle contrade (e ti pareva! Senesi siamo…), ma per il resto sono le eredi di quelle che per secoli hanno squillato per aiutare il Sole a rinascere nel giorno della luce d’inverno dedicato alla santa di Siracusa.

Ci si potrebbe fermare qui, ma in realtà, per capire fino in fondo il ruolo di questa festa nel contesto della Grande Festa di fine dicembre, occorre svolgere un’ultima, importante, considerazione. Diversamente dalla festa di San Nicola, che presenta analogie formali con il Natale (al quale ha prestato – ma solo in epoca moderna, come vedremo – la figura del distributore dei doni), ma che, per così dire, vive di una sua dimensione “autonoma” rispetto al 25 dicembre, quella di Santa Lucia è, invece, strettamente correlata con la data della nascita di Gesù. Fra il 13 dicembre e la vigilia di Natale intercorrono 12 notti; le stesse che ci sono fra il 25 dicembre e la vigila dell’Epifania. Gli antropologi e i folcloristi  definiscono, con parola greca, il complesso di questi giorni “dodekaemeron” e la tradizione popolare attribuisce a questi periodi qualità sacrali particolari (anche fra Halloween e San Martino, ad esempio, ci sono 12 notti): ritornano i morti, si verificano prodigi. Da Santa Lucia alla Befana, insomma, si snoda una doppia catena “dodekaemeronica” di giorni e notti “magiche” che costruiscono un unico tempo sacrale.

In conclusione, semplificando un po’: Natale e l’Epifania  cominciano per Santa Lucia.

Duccio Balestracci