La mirabile imperfezione dell’Orto de’ Pecci

Barriere fisiche e mentali. Hanno avuto notevole risonanza in questi ultimi giorni due episodi simili avvenuti all’interno di strutture turistiche. Entrambi caratterizzati dalla reazione infastidita di alcuni clienti alla presenza di disabili nella struttura che avevano scelto.

In un caso per una permanenza di qualche giorno e in un altro per una semplice cena. La stampa nazionale e vari social sono stati invasi da commenti di ogni tipo, molti si sono schierati contro quelle osservazioni, altri sono stati a favore.
Rispetto a quello che sto per trattare, queste reazioni sono a mio parere di un livello di gravità diverso e forse maggiore, caratterizzate da una venatura razzista su cui francamente stenderei un velo di silenzio. Si noti che sono sempre evocate in funzione di un atteggiamento “educativo” (per i figli – dice il primo signore – non è un bello spettacolo vedere tutti i giorni i disabili in carrozzina), per una malintesa attenzione verso di loro. A loro si vuole sempre di più evitare perfino la vista del dolore, della malattia e della disabilità, pensando che le giovani generazioni non debbano sopportarne la vista. Finché alla prima vera difficoltà che si presenta, capita magari che quegli stessi ragazzi crollino. Molto si potrebbe ancora dire su queste reazioni stizzite che mi sembrano davvero il segno di tempi difficili in cui si è un poco persa la dimensione umana, ma vorrei invece passare alle riflessioni che sento più vicine alla mia esperienza di tanti anni di lavoro.
Se, infatti, negli episodi succitati la reazione dei clienti è stata di fastidio solo per avere accanto a loro dei disabili, quale potrebbe essere – mi chiedo – la reazione al trovare dei disabili nello staff che conduce quell’esercizio, quel ristorante, quella squadra di lavoro?
Questa domanda ce la poniamo da tanti anni, quanti ne sono occorsi per organizzare il ristorante All’Orto de’ Pecci. Credo che questa esperienza ci dia qualche titolo a parlare, anche se vorrei subito escludere da queste mie riflessioni toni trionfalistici o tanto meno definitivi.

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Facendo prima due riflessioni preliminari.
La prima: credo che sia ufficialmente riconosciuto che i disabili più difficili da inserire in una normale attività lavorativa siano gli psichici, per la loro variabilità a volte imprevedibile, per il calo d’interesse e rendimento che si manifesta senza preavvisi, per i rapporti umani non semplici che spesso creano intorno a loro.
La seconda: l’attività di un ristorante è una delle più ansiogene e stressanti che si conosca, basti pensare che la nomenclatura dei vari ruoli di cucina e di sala fa largo riferimento al gergo militare. La brigata di cucina è pronta ogni giorno per affrontare una vera e propria guerra.
Mettete insieme queste due cose e capirete quanto può essere difficile inserire soggetti con quelle problematiche all’interno di un ristorante che si rispetti. Non so se ci siamo riusciti, ho in mente diversi successi ma anche alcuni fallimenti e quindi so che non esiste un metodo collaudato per sempre che può portare al successo, ma un’idea su quelle che sono le premesse necessarie perché questo possa accadere, sì.
Io parlerei di un’alchimia che preveda un mix variabile, secondo i momenti e i soggetti in questione, di tre “istanze”, tutte irrinunciabili ma nessuna più importante delle altre. La sostenibilità intesa come grande attenzione ai costi, alle spese, al fare il passo sempre adeguato alla propria gamba è una. Poi ricorderei la capacità imprenditoriale di rinnovarsi, di avere molta attenzione ai dettagli e al gradimento del pubblico, e infine la solidarietà intensa come capacità di conoscere le storie di chi lavora con noi, riuscire a dare ascolto nei momenti difficili, avere la comprensione delle problematiche principali.

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Con questo non vorrei aver dato l’idea di un gruppo sereno e tranquillo che riunendosi ogni tanto, sotto l’ombra di un grande albero, parla amabilmente. Queste tre esigenze spesso si accapigliano tra loro, ognuna portando nella discussione il proprio punto di vista, a volte opposto su cose o persone. Lo fanno spesso, molto spesso e con una fatica che a volte sfiora lo sfinimento. In alcune circostanze è un miracolo trovare un compromesso o ancora di più una sintesi tra le varie voci, ma bisogna riuscirci.
Altrimenti – mi chiedo – che cooperativa sociale sarebbe?
Quando si riesce a camminare su questo stretto crinale senza scivolamenti verso nessun versante ecco che l’atmosfera interna non necessita più della disciplina militare, ma si trasforma in qualcosa di diverso che ho pensato di battezzare mirabile imperfezione. Un ossimoro naturalmente, ma che evidenzia da un lato le lentezze e le imperfezioni che sono implicite nell’avere uno staff “particolare” e dall’altro la meraviglia di riuscire a non farsi travolgere da quest’ultime e a fornire un servizio decente se non discreto.
Devo dire che abbiamo impiegato quasi vent’anni per mettere a punto questo metodo di lavoro, che non è facilmente replicabile perché si basa sulla presenza di alcune persone “cardine” che spesso impersonano stabilmente le esigenze che ho descritto sopra e che riescono appunto a tenere in piedi la mirabile imperfezione.
Per chi avesse voglia di approfondire tutto quello che in questo spazio ho solo potuto accennare, segnalo che nel nostro sito [www.ortodepecci.it] sotto la voce risto sociale (brutta parola, ma non ne abbiamo trovata una migliore) in tre puntate approfondisco molti dei temi che qui ho solo sfiorato.
Vorrei terminare con una riflessione che ci riporta alla partenza e che, negli ultimi tempi, capita di dibattere al nostro interno.

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Facendo una piccola cronistoria: all’inizio la tendenza che prevaleva era quella di presentarci verso la clientela come un ristorante “normale” che nascondeva “in pancia” le proprie contraddizioni e lentezze. Poi abbiamo cominciato a pensare che forse questo non era giusto, né, usando forse un termine sproporzionato, da un punto di vista etico, né forse da un punto di vista di semplice politica di marketing.
Qualcuno ha cominciato a pensare che bisognava fare una politica di comunicazione che invertisse di 180 gradi la rotta. Non presentarci come un ristorante normale, ma come uno che esibiva la propria differenza, sperando che il pubblico così intanto sapesse bene dove si trovava e magari lo apprezzasse anche.
Quindi se qualche recensione negativa arriva (qualcuna per la verità è già arrivata), e punta il dito sulle carenze del nostro personale, abbiamo due strade da percorrere. Quella al nostro interno deve puntare a migliorare e a far capire ai responsabili quello che è successo, perché nulla come il contatto vero con la realtà è terapeutico per chi magari ha spesso evitato quel contatto.
La seconda, verso l’esterno, deve in tutti i modi far capire che il nostro lavoro non è solo fare buoni pasti e dare gradevole accoglienza ma è anche quello di sostenere e tutelare, con l’atteggiamento del buon genitore, i dipendenti che ne hanno bisogno.
Insomma, tanto per ribadire il concetto, dobbiamo riuscire a rendere in qualche modo mirabili le nostre imperfezioni.
Andrea Friscelli