Vent’anni fa l’omicidio della tassista a Castellina in Chianti: si riaprono nuovi scenari

Mille documenti ingialliti dal tempo e usurati dai numerosi investigatori che li hanno riletti in cerca della verità sul delitto di Alessandra Vanni, tassista, strangolata a 29 anni dentro al taxi 22 che divideva con lo zio. Accadeva venti anni fa dietro al cimitero di Castellina in Chianti. Un omicidio dove ancora non c’è un colpevole e neppure un movente.

Eppure da una foto e relativo accertamento medico legale fatto nell’immediatezza potrebbero arrivare alcune risposte. La procura pare averci pensato che l’immagine in primo piano del sedile posteriore dell’auto dove fu uccisa Alessandra potrebbe aprire nuovi scenari.
La nitida impronta lasciata sulla tappezzeria è resa ben definita dalla polvere; molto meglio di quanto potesse fare la Scientifica attraverso la “dust fingerprints”. La prima a rendersi conto dell’importanza di quelle linee e dello strano simbolo che affiorava fu il medico legale, Floriana Monciotti, che per prima insieme all’ora sostituto procuratore Roberto Rossi arrivarono con i carabinieri in quella deserta piazzola poco fuori Castellina in Chianti.

La prima analizzò minuziosamente ogni cosa e con gli strumenti del tempo, davvero molto pochi, riuscì a documentare un quadro dettagliato, mentre il pm coordinava i carabinieri e polizia che sentirono decine di persone per ricostruire le ultime ore di vita della ragazza. Non emersero elementi tali da arrivare all’assassino, né fu possibile chiarire il movente. Le indagini per diversi mesi rimasero ferme, intanto i pm che si occuparono di volta, in volta, di quel fascicolo con un numero di protocollo, un nome (quello della Vanni) e una data: 7/8 agosto 1997 lasciarono Siena per altre procure.
Il tempo passava e nulla di nuovo sembrava accadere per dare nuovo impulso agli accertamenti. Smisero di arrivare anche le lettere anonime inviate ad ogni anniversario del delitto in quattro anni successivi. Rimase solo un ispettore a continuare a rileggere quella montagna di documenti. L’unica cosa che continuava ad emergere con prepotenza era quell’impronta lasciata sul sedile posteriore del taxi 22. Un borsone che conteneva qualcosa di pesante, legato con il filo poi usato per strangolare la giovane tassista e al quale era attaccato un ciondolo che ricordava molto il simbolo della pace: un tondo con all’interno una Y. Il simbolo della pace? Che ironia drammatica. E là verosimilmente si trova il movente: Alessandra fu inconsapevole testimone di un “traffico” di qualcosa di compromettente. Non avrebbe dovuto vedere. Non fu un omicidio premeditato, ma di impulso. Ne è convinto ancora oggi il dottor Roberto Rossi. E questa convinzione ce l’ha anche il sostituto procuratore Nicola Marini che ha preso in carico il fascicolo di Alessandra Vanni.


Nel tempo lo stesso pm Marini ha riesumato un uomo nel cimitero di Uopini per il dna tra i lembi di pelle trovati sotto le unghie della Vanni e perfettamente conservati dalla medicina legale di Siena e il sangue di quell’uomo. Quest’ultimo conosceva bene la tassista e con ogni probabilità sapeva molto di più di quanto disse durante gli interrogatori. Ma ormai ha portato i suoi segreti nella tomba. Quasi contemporaneamente furono fatti identici accertamenti con sei soggetti che potevano aver avuto contatti con la Vanni nelle ultime ore della sua vita. Tutti indagati (è un atto dovuto) e per tutti il dna. I risultati spensero le ultime speranze: erano tutti negativi. Ma il pm Marini non si dà per vinto e l’ultimo accertamento ha portato la nostra polizia nel nord dell’Italia. E’ qua che è rinchiuso un ex pugile definito un “killer” seriale e che quei giorni di agosto del 1997 era agli arresti domiciliari e quindi avrebbe potuto benissimo essere arrivato a Siena per un qualche motivo e bloccato il taxi 22 lungo una strada della città. L’ultima corsa di Alessandra non passò, infatti, dal centralino. Ma anche questa strada non è risultata vincente. Il dna dell’ex pugile non combacia.
L’omicidio della Vanni continuava a rimanere nella mente del medico legale Floriana Monciotti e del procuratore della Repubblica Roberto Rossi. Da noi interpellati hanno ribadito che ripensano spesso a quel delitto e quando chiediamo loro se davvero è stato fatto di tutto per scoprire il responsabile rispondono: “con i mezzi di allora abbiamo fatto tutto e di più”. Nonostante questo da venti anni c’è una famiglia che aspetta giustizia e la verità.
Cecilia Marzotti

(foto di archivio Pietro Cinotti)