Mors tua vita Pea: la Gazzetta non vuol arrendersi e scatena Ciglione Toti

mors tua vita …Pea

Adesso la mattina mi sveglio presto:  oggi alle sei e mezza. Evidentemente mi sto abituando agli orari della cardiologia. Poco male: la giornata è più lunga anche se ancora molto calda. E così, aspettando che il ragazzo dell’edicola in galleria Matteotti m’infili i giornali sotto alla porta, che è poi un portone grande e grosso come Lawal, ho cominciato a scrivere del Ciglione Toti assai accigliato.
Scherzando sulle sue sopracciglia che tanto sono folte da sembrare un bosco spaventoso e tetro. Nel quale non filtra mai il sole. Neanche a ferragosto. E dove si possono nascondere bestie di qualsiasi genere, categoria o sottospecie giornalistica. E non solo le vipere dell’Espresso che gli fanno i conti in tasca e frugano tra quelli suoi in banca. Ma pure, mi dicono, due elefantini indiani che si erano persi nei pressi dei Fori imperiali e che ora si sentono più sicuri là, tra le sopracciglia del presidente della Virtus Roma, che sotto le mitiche foglie di fragole nell’orto botanico della capitale. Poveri illusi.

 

Claudio Toti era molto furioso ieri sera. Ma con chi ce l’aveva? Vallo a capire. Lui magari s’acciglia semplicemente perché è il Ciglione o perché altrimenti non saprebbe cosa fare tutto il giorno se non prendersela con gli arbitri e col sistema o col primo gatto nero che gli attraversa la strada o col secondo cane randagio che gli viene a tiro. Un giorno di qualche lustro fa si era per esempio messo in testa che Siena gli avesse rubato uno scudetto e da allora non passa estate senza che non presenti un esposto in federazione che fa sbellicare dalle risate ed è regolarmente subito cestinato per volere esplicito dello stesso autore che nel giro di ventiquattrore si pente e pure si vergogna di quel che ha scritto il giorno prima. Come nella mia famiglia, i Toti sono tre e l’ingegnere Claudio sta in mezzo all’avvocato Pierluigi e all’architetto Stefano. Io invece sono primogenito, non mi sono mai laureato, anche se ho studiato prima medicina e poi farmacia, e mi piaceva legge, e i miei fratelli sono entrambi avvocati. Come mia figlia e i miei quattro nipoti. Senza contare zii e cugini. Questo per dire che ho le spalle abbastanza forti per sostenere senza problemi che il mio caro Ciglione va preso così com’è e cioè satiricamente solo in giro. Difatti se lo dovessimo prendere sul serio, dovrebbe essere in fretta allontanato dal mondo del basket in quanto persona sgradita, collerica e pericolosa. E qui finisco di scherzare perché nel frattempo la Tigre mi ha portato col caffelatte i giornali e, sfogliando la Gazzetta, mi è cambiato l’umore.

 

C’è poco da ridere: la Gazzetta non si dà pace e ancora non si rassegna all’idea che Siena possa vincere il settimo scudetto di fila, l’ottavo negli ultimi dieci anni d’impero. Non ce l’ha fatta con Milano e Proli o con Varese e Vescovi e adesso disperata prova ad armare Roma e Toti in nome di una guerra che non è santa ma spregevole. Fatta di bugie, calunnie, silenzi, sotterfugi e sottomissioni. Scatenandosi dopo la quarta finale e non prima dal momento che persino Toti aveva avuto il pudore di non lamentarsi dei primi tre arbitraggi. Visto che in gara 1 ha fischiato Cicorino Cicoria e in gara 2 la Monica, ovvero due longobardi che venderebbero volentieri l’anima al diavolo pur di vedere la Montepaschi di Messer Minucci sottomessa ai loro piedi. E in gara 3 è stata la volta di Cerebuch o Cerebruch o come cavolo si scrive. Insomma il diabolico triestino che a Roma ha fatto uno di quei favori che nemmeno Berlusconi si è mai sognato di pensare per le sue nipotine. Ma come? Ve lo siete già dimenticato? Niente paura, ve lo ricordo subito io: ha semplicemente steso Moss dopo un quarto d’ora con un uno-due al basso ventre (terzo e quarto fallo inesistenti) che avrebbe ucciso anche un elefante, stavolta africano e con la scorza molto più dura della mia.

 

Peccato che questa Montepaschi stanca-morta non muoia mai. Né con Milano o con Varese alla settima decisiva partita fuori casa. O contro Cerebruch, Cicorino o la Monica. Ma anche la Gazzetta non molla e a uno dei suoi Besciamella (senza sale), l’ex vicepresidente della Banda Osiris, poi sostituito da Virgilio Bernardi e Benito Sbezzi, numero di tessera 002, lascia volentieri scrivere che nell’ultimo quarto della partita di ieri c’è stata “una mattanza dove gli arbitri Begnis, Sardella e Weidmann non hanno garantito le garanzie minime per giocare a pallacanestro”. Trasecolo e aborro, come strillerebbe Mughini, ma non perdo neanche un secondo a spiegare a chi non ha orecchie per sentire quello che super partes ha scritto Fuochi su Repubblica e che sottoscrivo in pieno: “Alle corde Siena si ribella con la difesa”. E aggiungo io pure con il contropiede all’italiana. “Datome stecca il -1 e a 26’’ c’è l’antisportivo di Jones che tiene Hackett per la maglia come un terzino che causa un rigore. La foto è la sintesi. Siena va. Con Roma aggrappata, ma va”.

 

Non parla Walterino Fuochi d’arbitri cialtroni o scorretti, ma di grande difesa di Moss e compagni. Anche se dovrà probabilmente ingoiare lo score cartaceo della scorsa finale con l’Armani di Don Gel. Come in Piazza del Campo aveva promesso a Messer Minucci un anno fa di fare qualora il Monte avesse centrato il settimo incredibile titolo di fila. Qualche volta capita anche ai migliori di sbagliare. Così come non voglio io parlare adesso di chi ha cominciato per primo a offendere, provocare o sputare tra Totti e qualche contradaiòlo. Per questo ci sono i filmati che invitiamo anche la Gazzetta e Sky a guardare prima d’espettorare altre sentenze che non sono vere, fanno male e accendono nuovi livori. Mentre il Ciglione accigliatissimo lasciava la tribuna minacciando: “Siena a Roma non vincerà lo scudetto”. Mentre su Facebook le bestie si scatenavano: “Facciamo esplodere mercoledì la violenza fuori e dentro al Pala Tiziano. L’unico senese buono è il senese morto”. Mentre i due elefantini, smarritosi nella foresta delle sopracciglia di Toti, tentavano disperatamente di fuggire da quel baccano per tornare a nascondersi nel tranquillo orto di fragole.